HO CONOSCIUTO UN POETA...

 

Durante la manifestazione svoltasi nel passato mese di Luglio, intitolata "FIERAMELIA", entrando nello "stand" allestito dalla Casa Editrice Thyrus di Stroncone, mi capitò fra le mani un libretto intitolato "Raccolta di metri poetici italiani" (Ed. Thyrus - 1991), nel quale l'autore Alfredo De Santis (1), illustrando i vari tipi di metrica ritmica usati nella poesia italiana, dal 1300 ai giorni nostri, riportava, a titolo d'esempio, alcune liriche -o loro brani- di diversi autori che, nel corso dei secoli, si sono cimentati nell' "ars poetica", da Dante a Carducci, da Petrarca a D'Annunzio. Fra gli altri -senza peccare d'immodestia- l'autore riportava anche diversi suoi componimenti -o parte di essi- che hanno subito catturato la mia attenzione per la notevole maestria dimostrata nell'uso della metrica e delle rime nei vari generi, dal sonetto all'ode saffica, dal madrigale alla ballatetta, dal sirventese alla canzone petrarchesca, stimolandomi a voler approfondire la conoscenza della sua produzione poetica, restata -a quanto mi risulta- pressoché sconosciuta.

Ho avuto, così, modo di procurarmi il libro "Un po' di verde" (Ed. Thyrus - 1990) -il secondo pubblicato dal De Santis- dalla lettura del quale ho potuto dedurre alcune riflessioni.

Non sono un critico letterario, ma penso di essere sufficientemente in grado di esaminare i vari aspetti di un componimento poetico: cioè, innanzi tutto, quello sostanziale -il concetto- e, successivamente, quello formale, oggi troppo spesso del tutto ignorato. Ciò che conferisce la "dignità" di poesia ad una qualsiasi opera letteraria è l'elevatezza del suo contenuto, che può manifestarsi e condensarsi anche in un solo verso, come è stato ben dimostrato dal celebre settenario ungarettiano "M'illumino d'immenso" che, anche foneticamente, manifesta una notevole musicalità.

Chiaramente, sul merito dei contenuti, la poesia del De Santis non può paragonarsi con quella di Dante, Petrarca, Carducci o D'Annunzio: la sua vena è tranquilla, pacata, dignitosa, garbata. Tratta di temi che, come ben rilevato dal Prof. Telesforo Nanni, che ha curato la presentazione del libro, riguardano "il suo mondo di affetti, di ricordi, di eventi e di immagini"; essi spaziano dagli affetti familiari al ricordo di un amico, dalla rievocazione di un luogo, al pensiero della morte e sono pervasi da una profonda e convinta religiosità.

Ma ciò in cui il De Santis si rivela un vero maestro è la parte stilistica del suo rimare, che fluisce dalla sua penna con notevole facilità, spontaneità e scorrevolezza: non c'è un solo verso che risulti metricamente imperfetto, con forzature o stentatezze.

Vorrei, a titolo d'esempio, offrire ai Lettori un delicato sonetto, intitolato "Alla mia bambina", dedicato dal poeta alla figlia ancora in tenera età, nel quale traspare tutto l'affetto di un padre e che termina come una preghiera:

 

                    "Quando tu, fiduciosa, sul mio petto    

                    abbandonata, pòsi la testina,

                    la tua testina bionda d'angioletto,

                    e tieni nella mia la tua manina,

 

                       sempre un'ondata tenera d'affetto

                    m'invade il cuore, cara mia piccina

                    e, accarezzando il dolce tuo visetto,

                    penso che non sarai sempre bambina.

 

                        Penso che un giorno, stringerti e baciarti

                    così, più non potrò. Che nostalgia,

                    quando tra le mie braccia a rannicchiarti

 

                        più non verrai, la guancia sulla mia!

                    Ma il bene che ti voglio non scordarti

                    e che tu sia felice e così sia".

 

Soltanto in un secondo tempo ho avuto notizia della provenienza del De Santis da una non troppo elevata categoria sociale, con una base culturale formatasi nella prima metà dello scorso secolo e che non comprese gli studi classici e ciò, ai miei occhi, ha costituito un maggior titolo di merito, accrescendo la mia considerazione nei suoi riguardi.

Vorrei terminare questo mio breve giudizio, proponendo ai Lettori l'ultima lirica del libro, intitolata "Quando verrà la sera". In essa, il poeta, adoperando il metro saffico, fa un riassunto della propria vita, considerando le sofferenze e le umiliazioni patite, che però non hanno fatto venir meno in lui i buoni sentimenti e la fede religiosa.

Nell'ultima strofa, chiede al Signore che, alla fine della sua giornata terrena (conclusasi nel 1993) se, in punto di morte, non fosse in grado di conservare la lucidità di mente per rivolgere a Dio l'ultima preghiera, Gli chiede di volerlo ugualmente accogliere nel Suo seno:

 

                   "Signore, ho già sofferto. Ne ho patite

                 tante. Quante ingiustizie e umiliazioni!

                 e quanto poche gioie! ingigantite

                                dalle illusioni.

 

                Eppure, tutta questa sofferenza,

                 lungo la vita, sì, mi ha logorato,

                 angosciandomi spesso l'esistenza,

                                ma non guastato.

 

                Mi avrà salvato l'ottimismo -un dono-

                 facendomi sperare nel domani...

                 E adesso, adesso, come sempre, sono

                                nelle tue mani.

 

                Ma oramai ti domando solamente

                 di non serbarmi ancora altro dolore:

                 fammene andare dignitosamente,

                                senza rumore.

 

                E se anche non potessi -delirando-

                 implorarti con l'ultima preghiera,

                 accoglimi tra le tua braccia, quando

                                verrà la sera...".

 

(1) Terni, 1917-1993. Diplomato in ragioneria, ha lavorato per quasi quarant'anni in un'importante industria siderurgica ternana.

 

(Ottobre 2005)