A caccia di poesia | GIOVANNI SPAGNOLI | Maria laura Spagnoli

A CACCIA DI POESIA

 

Ai tempi del nonno Gigi , nel  casale sito al Vocabolo Assignano, lungo la Via Ortana, condotto a mezzadria da Armandino Quadraccia, detto “Fichino”, sul ciglio di un colle sovrastante un ampio terrapieno coronato da un’esedra di maestose, secolari querce, v’era una graziosa piccola costruzione a due piani, totalmente nascosta da piante di alloro e rivestita da una folta cortina di edera. Era stata certamente costruita, forse ai tempi del bisavolo Antonio, con intenti venatori, come poteva chiaramente dedursi dai trespoli in ferro per le gabbie dei richiami di cui era dotato il vano a piano terra, mentre quello sovrastante presentava feritoie orizzontali (“cecarole”) in muratura, con telai di legno, provvisti di schermi mobili scorrevoli e piani imbottiti di stoffa, per l’appoggio delle canne dei fucili, oltre a diverse mensole per le cartucce e rastrelliere per le armi.

Oggi nulla è restato né delle querce, né della casetta, che l’ingiustificabile distruttrice volontà dei successivi proprietari ha spazzato via dall’ameno colle, tanto caro ai miei ricordi di giovinezza.

 Sulle pareti interne di quella casetta, da me frequentata per la caccia invernale ai tordi, erano ancora leggibili, ai miei tempi, tracciate da diverse mani di seguaci di Nembrod che mi avevano preceduto, alcune poesie estemporanee, frutto dell’estro di qualche bello spirito, certamente elaborate durante le lunghe pause concesse dal discontinuo fluire delle migrazioni degli uccelli.

Mi è gradito ricordarne alcune.

 

“I tocchi melanconici del campanone io sento

d’Orte, che quasi paiono un lontano lamento.

Per predar tordi cìfolo e cìfolo di lena,

ma stamane non passano, per questa valle amena.

Eppur le querce multiple di Gigi han rinomanza

di predar spesso facile i tordi in abbondanza.

Ma questa mane il diavolo non vuol che qui uccell’io

più di tre tordi uccidere non possa. Gigi addio!”.

 

“E’ Frollin rompico......, vero re dei frelliconi.

Chiede in prestito la quercia e a guardar qua e là si sguercia;

sfrocia, raschia, fischia e sputa, bestemmiando perché è muta

dei zillanti la famiglia -un colbaccio che lo piglia!-

sospirando almen che un tordo, salti agli occhi a lui che è sordo.

Quando è stanco d’aspettare, si diverte a verseggiare,

tartassando i due vicini, Chiocchia fesso e Vincentini,

che arrabbiati del suo estro, gli daranno sul canestro!”.

 

“Dodici ore per giornata sta dormendo Vincentini,

che, se è a corto di quattrini, diciott’ore dorme ancor.

E per questo il disgraziato, “pelandron” fu nominato.

Compiangiamo il poveretto, che la vita passa a letto.

Evitiamo il pelandrone, che può darci l’infezione!”.

 

“E di Chiocchia che ne fai che ti dà cordoglio e guai?

Discacciando il tordo in frasca e rompendoti la tasca

col ciaciare ad ogni istante, il fucil mettendo avante

pur sul viso alle persone, senza alcuna ritenzione.

Se Enrichetto è un gran dormiente, Chiocchia invece è un ver demente.

Ha ciascun le pecche sue. Accidenti a tutti e due!”.

 

Come si può vedere, si tratta di semplici rime senza pretese, dettate più da voglia di sfottere che da ispirazione poetica, frutto di verseggiatori buontemponi, certamente legati fra loro da profonda amicizia e simpatia, che hanno voluto lasciare memoria delle loro ingenue e bonarie manifestazioni “letterarie” sul muro della vecchia e cara casetta del nonno. Fra le persone citate, è facile individuare alcune tra le figure amerine più caratteristiche della prima metà del nostro ormai morente secolo: Enrichetto Vincentini, stagnino ed esperto artefice di richiami in lamiera (“cifoli” per tordi ed allodole e “chioccoli” per merli), con bottega verso la “croce di borgo” ed il celeberrimo Gustavo Castellani, meglio noto con l’appellativo di “Chiocchia”, uno dei cacciatori più noti di quel tempo. Non è ben identificabile la terza vittima di quelle argute frecciate, che doveva però essere un esperto rimatore (quasi certamente Riccardo Frollini).

 Mentre potrei affermare con una certa sicurezza di riconoscere l’estro poetico del nonno Gigi in almeno un paio delle ultime tre composizioni sopra riportate, nulla si sa del garbato autore delle prime strofe.

Ed è perché non si perda del tutto la memoria di quel periodo della mia età novella, tanto caro al mio cuore, che ho voluto tracciare queste poche righe che, sono sicuro, evocheranno anche in alcuni degli amerini meno giovani, qualche nostalgico ricordo e, forse, un dolce rimpianto per il  fugace trascorrere del tempo.

 

(Dicembre 1998)

 

 

 

© Giovanni Spagnoli 2013