Pene corporali in Amelia nei secoli XIV-XV

"SI IN FORTIAM COMMUNIS DEVENERIT..."     "......PUNIATUR IN PERSONA"


 PENE CORPORALI IN AMELIA NEI SECOLI XIV-XV


(Ricerca storico-archivistica di Giovanni Spagnoli)


Mai come al giorno d’oggi, l’opinione pubblica internazionale è risutata divisa fra coloro che sono favorevoli alla pena di morte e quelli -forse in minoranza numerica, ma certamente più civilmente progrediti- che sono contrari ad essa.

La dignità della persona umana, anche se talora sembri venire totalmente offuscata da abominevoli delitti, non può non pretendere  che la vita, questo inestimabile bene di cui è depositario ogni essere, non debba dipendere, per un uomo, dalla pur cosciente e ponderata decisione di altri uomini.

Attualmente -e non soltanto nelle nazioni che hanno ripudiato la pena capitale- si tende alla progressiva eliminazione anche di qualsiasi altra pena di tipo corporale, giungendo al punto da vietare ai genitori di picchiare i figli, sia pure al lodevole scopo di correggerne, con amorevole energia, qualche cattiva inclinazione.

Non si vorrebbe entrare in merito alla questione della maggiore o minore efficacia o liceità di alcuni sistemi educativi o rieducativi, che vengono adottati oggigiorno in seno alle famiglie, nelle scuole, nelle caserme o negli istituti di pena o di riabilitazione: potrebbe essere un discorso che porterebbe troppo lontano e, comunque, non attinente al tema ripropostoci.

Basterà, tuttavia, accennare che, come in tutti i problemi aventi ad oggetto gli umani comportamenti, l’adozione di un sistema educativo improntato ad eccessivo permissivismo potrebbe portare ad estremi opposti, come si è verificato ultimamente nel nostro Paese, dove anche una energica reprimenda verbale di un insegnante nei confronti di un alunno indisciplinato ha suscitato, nel suo poco lungimirante genitore, una minacciosa reazione verso il “temerario” docente.

Occorre, ad ogni modo -qualsiasi soluzione venga adottata- che non si ingeneri nell’individuo propenso a non considerare il rispetto della legge come e soprattutto, un imperativo morale, la sensazione, facilmente trasformabile in convinzione, che tutto sia lecito e che, comunque vada, il comportamento asociale possa, prima o poi, approdare ad una sorta di impunità.

Certamente, non di eccessivo garantismo peccarono i nostri antenati vissuti negli ultimi secoli del medioevo, anche se, come si vedrà, ad eccezione della quasi totalità delle pene capitali, l’applicazione, in quel periodo, delle sanzioni corporali era comminata in alternativa al mancato pagamento, entro dieci giorni dal deposito della relativa sentenza di condanna (“a die late sententie”) di una pena pecuniaria, “pro banno comuni”, cioè a favore delle casse comunali (e giammai della eventuale parte lesa) la cui entità variava a seconda della gravità del reato commesso.

Ce ne convincerà l’esame -pur sommariamente trattato, date la vastità del tema e la mancanza di spazio- delle norme che vennero adottate in quel periodo storico e codificate negli statuti e nelle riformanze del tempo.

In linea di massima, il reo riconosciuto colpevole del crimine ascrittogli, che si fosse trovato nelle mani dell'esecutore di giustizia (cioè "si erit in fortiam comunis"), se la sua colpa lo avesse previsto, doveva sottostare corporalmente alla pena, secondo gli statuti ("puniatur in persona, secundum formam statuti").

Procediamo, dunque, a descrivere le pene corporali in uso in Amelia nel corso dei secoli XIV e XV e per quali delitti venivano comminate, iniziando da quelli considerati i più gravi, meritevoli di maggiore severità.

In un periodo storico in cui era di vitale importanza per la comunità salvaguardare la massima sicurezza all’interno del centro abitato, tutte le azioni che potevano costituire minaccia per la comune sopravvivenza e turbativa dello stato pacifico della città erano punite con la più grande durezza.

Per quanto possa sembrarci strano, le norme statutarie succedutesi nel periodo in esame previdero ben quattro sistemi diversi, con cui dare attuazione alla pena capitale.

Il più classico era l’impiccagione: “suspendatur per gulam ita quod moriatur”.

Da una delibera comunale del 18 Marzo 1421, sappiamo che l’esecuzione di due militi di Amelia che avevano disertato, facendo causa comune con dei ribelli fociani, era previsto che dovesse avvenire “in furcis Montis Labri”, cioè sulle forche erette sul Monte Labro, oggi S. Salvatore, ma non sappiamo se tale patibolo fosse collocato permanentemente in detto luogo (corrispondesse, cioè, al “locus Justitie”, cui viene fatto spesso riferimento), oppure se alla morte dei due disgraziati si volesse dare, in un particolare periodo di disordini (“tempore rumoris”), una mirata pubblicità, con palese significato deterrente, come lascerebbe supporre la motivazione “ut aliis dicta executio transeat in exemplum”; cioè che l’esecuzione servisse d’esempio agli altri (c.d. morte d’esemplarità).

L’impiccagione, nello statuto del 1330, era prevista dalla rubrica 72 del libro V e veniva comminata per “quicumque fecerit aliquam cavalcatam” contro Amelia, i castelli di Foce e Porchiano o altro luogo del distretto, “causa accipiendi aliquam predam vel capiendi aliquos homines”; vale a dire, per fare bottino o per prendere prigionieri e, che, successivamente, “in fortiam dicti comunis pervenerit”; cioè fosse stato catturato, quindi si trovasse nelle mani del pubblico esecutore di giustizia, braccio armato della legge .

Per “cavalcata” si intendeva una scorreria, un assalto di uomini armati a cavallo e, per i disordini che ne potevano derivare, era condannata con estrema severità. Né, come vedremo più innanzi, l’impiccagione era l’unico modo con cui essa veniva punita.

La stessa pena era, altresì, prevista per reati commessi da colui che avesse fama di ladro da strada maestra; tale era ritenuto chi “derobaverit aliquem seu aliquid alicuius violenter acceperit in strata publica qua itur a ponte Sancte Marie in Canali ad civitatem ortanam, seu in aliqua alia strata publica”; cioè chi si fosse reso reo di furto o rapina lungo la strada pubblica che da Santa Maria in Canale si dirigeva verso Orte o su altre vie pubbliche del distretto amerino. In tal caso  l’esecuzione doveva avvenire -per una sorta di contrappasso- “ibi ubi crassatum fuerit sive delinquerit”, cioè sul luogo  medesimo del commesso delitto .

Allo stesso modo “furcis suspendatur” colui che si era reso colpevole di un furto del valore di oltre cento fiorini, “etiam si nullum aliud furtum fecisset”, anche se non ne avesse compiuti altri.

Quanto sopra si rileva dal libro IV dello statuto, a tutt’oggi inedito, redatto nel 1441, alle rubriche 43 e 44. In calce alla pagina di detto statuto, un arguto commentatore o glossatore, che non mancava di un certo spirito di sapore macabro, ci ha lasciato un eloquente schizzo che rappresenta un impiccato pendente dalla forca .

Occorre, a questo punto, fare alcune precisazioni in merito al sopra citato statuto, che venne approvato e confermato con breve di Eugenio IV,  datato da Firenze il 20 Agosto 1441, ed indirizzato all’Arcivescovo Aquilano, Rettore del Patrimonio di S. Pietro in Tuscia, come rilevasi dalle riformanze di quel periodo, nelle quali detto breve venne trascritto.

 Nell’archivio comunale di Amelia, del citato statuto si può visionare anche una copia manoscritta quasi letterale, e comunque di chiara derivazione da quest'ultimo, magnificamente conservata, completa in ogni sua parte e perfettamente leggibile, redatta nel 1560 e confermata con breve di Pio IV del 18 Marzo di quell’anno, che integra in modo mirabile l’originale del 1441, che presenta notevoli lacune, a causa di successive asportazioni e dell’azione obliterante degli uomini e del tempo. 

La sostanziale identità dei due testi è tale, da suscitare alcune perplessità.

Se lo statuto del 1441, come si deduce dalla conferma pontificia, doveva venir adottato anche centovent’anni dopo, perché non venne modificato almeno per adeguarlo alle nuove necessità monetarie? E’ infatti inspiegabile che la copia del 1560 parli ancora di libre di denari, di fiorini e di bolognini, in un periodo in cui questi erano stati da tempo sostituiti da ducati, carlini, giuli, paoli e baiocchi. Oltre a ciò, l’entità delle cifre indicate nello statuto del 1441 è rigorosamente conservata identica anche nella copia cinquecentesca (ad esempio, per i salari degli ufficiali e per le pene pecuniarie). Una soluzione al quesito potrebbe venir suggerita dalla non impossibile esistenza di qualche scala di ragguaglio, che consentisse un adeguamento delle numerosissime citazioni di monete non più in uso, senza doverne necessariamente variare il testo letterale. 

E ciò tanto più desta meraviglia e suscita perplessità, se si considera che, nello statuto amerino del 1346, la moneta di riferimento è la libra di denari perugini che, a distanza di non più di tre lustri, aveva sostituito la libra di denari cortonesi, che figurava nel precedente statuto del 1330.

Ma il fenomeno sopra rilevato per lo statuto copiato nel 1560, non costituisce un caso isolato, ma  è riscontrabile in tutti gli statuti cinquecenteschi, appartenenti a città umbre come Terni, Orvieto, Lugnano in Teverina e Todi e fino ad oggi consultati.

Ed allora anche un’altra ipotesi potrebbe venir formulata, per giustificare tale circostanza. Sarebbe cioè possibile pensare che l’approvazione o, quanto meno, la conferma dello statuto -o, meglio, di "uno" statuto-  da parte dell’autorità pontificia, fosse restato, dalla seconda metà del XVI secolo, non molto più di un simbolo: vale a dire il riconoscimento -più formale che reale- di un'aspirazione a disporre di un’autonomia legislativa locale traente origine e giustificazione dallo “jus condendi statuta”, concesso fin dal 1294 da Bonifacio VIII alle città del Patrimonio di S. Pietro e mai venuta meno. Si spiegherebbe, in tal senso, la non necessaria esatta corrispondenza del singolo statuto alle mutate necessità della società comunale .

Chiusa questa piccola digressione, riprendiamo ad occuparci dell’argomento principale del presente lavoro. 

A titolo di informazione, citiamo che lo statuto di Narni del 1371 prevedeva l’impiccagione per diversi reati, fra i quali omicidio, incendio,  adulterio e ruberie (Lib.III, c.41); lo statuto di Piediluco del 1417 (Lib.III, cap.16) condannava alla forca coloro che avessero commesso, con effrazione, in una casa cittadina, un furto del valore superiore a 20 soldi e non pagassero la pena pecuniaria prevista; mentre lo statuto di Gubbio, del 1338, pervenutoci in una copia del 1371 (Lib.III, r.60) comminava l'impiccagione per i ladri recidivi e i grassatori da strada ("robbatores stratarum").

Altra pena di morte: la decapitazione.

Era prevista per coloro che tramassero o si coalizzassero contro l’ufficio anzianale o cercassero di corromperne i membri: la rubrica 169 dello statuto del 1346 comminava per essi una pena pecuniaria di ben mille libre. Se non veniva pagata entro dieci giorni dalla condanna, il reo, che si trovasse “in fortiam comunis” doveva venir condotto “ad locum justitie et ibi vita per capitis mutilationem privetur”. Anche la rubrica 97 del Lib.IV dello statuto del 1441 prevedeva la stessa procedura.

Lo statuto del 1330, come vedremo, comminava per tale reato una pena  non meno severa e forse ancor più crudele, anche se, nella delibera anzianale del 4 Agosto 1331, che figura riportata di seguito al manoscritto del detto statuto, la pena comminata per tale delitto era appunto quella della decapitazione.

Ma la decapitazione era certamente contemplata dagli statuti che precedettero quello del 1330 e non pervenutici. Ne è prova quanto riportato nelle riformanze comunali sotto la data del 27 Gennaio 1329, nelle quali è data notizia di una condanna “in amputationem capitis”, inflitta a certi Angelello e Ceccarello, per “excessibus qui per ipsos perpetrati dicuntur in personas quarumdam monialium S. Manni”; cioè per aver commesso eccessi (probabilmente violenze) nei confronti di alcune monache di S. Magno: la gravità del reato, d’altronde, avrebbe autorizzato una simile punizione. 

Il taglio della testa era altresì sancito dalla rubrica 31 del libro IV dello statuto del 1441: per chi commetteva omicidio, “eidem capud (sic) a spatulis amputetur, ita quod moriatur”: gli venisse cioè spiccato il capo dal busto. Come vedremo, una pena ancor più atroce era riservata dagli stessi statuti per l' assassino (cioè per l’ omicida prezzolato).

Si riferisce, a notizia, che anche lo statuto di Perugia del 1279 (cap. 282) e quello di Collescipoli (“Collescipionis”), del 1453, punivano l’omicidio con la decapitazione (r.59) ed altrettanto era previsto nello statuto di Todi del 1337; ma in quest’ultimo, pur non mutando la pena, si enumerava, in non meno di 15 rubriche, una casistica sorprendentemente particolareggiata, che sarebbe troppo lungo riportare. A titolo di esempio, basti citare la r.62 del L. III, nella quale il padrone del cavallo che avrà provocato la morte di qualcuno risponderà dell’uccisione, come se l’avesse procurata di persona; a meno che -come precisato nella successiva rubrica 63- il cavallo abbia ucciso qualcuno dopo essere sfuggito al padrone  e questi si sia premurato di gridare “guarda!” per ben tre volte di seguito. Anche lo statuto di Terni del 1524,alla rubrica 31 del L.III, sanciva che l'omicida venisse "condennato et punito in amputazione del capo in tal modo che mora" e la stessa pena la successiva rubrica 32 prevedeva per chi rapisse una monaca dal monastero "per caggione de cognoscere essa carnalmente" o una "viduva de bona et onesta fama", sempre per detto fine. Un'esecuzione collettiva per decapitazione, restata tristemente famosa, ebbe luogo proprio nella Città di Terni, in seguito alla strage di molti notabili ternani compiuta nella notte del 22 Agosto 1564, passata nelle cronache del tempo come "la rivolta dei Banderari" e della quale si parla nel breve di Pio IV del 30 Agosto 1564 indirizzato al Governatore di Terni, Monte de' Valenti di Trevi. In quella triste occasione, le teste dei condannati vennero confitte sopra la porta del palazzo del Magistrato: "capita eorum super porta Palatii publici affixa fuerunt". Com'è noto, a Roma, per una simile macabra esposizione, era deputata la Porta Angelica .  

Altra pena capitale: la condanna al rogo. Era presa in considerazione soltanto dallo statuto del 1441,  in tre casi ben distinti.

 Il primo era contemplato dalla rubrica 37 del libro IV, per chi, maggiore di anni trenta, “aliquem puerum strupaverit (sic!) vel carnaliter contra naturam cognoverit”; per tale immondo reato, che non ha bisogno di commento né di traduzione, il reo “flammis igneis conburatur, ita quod moriatur”. (Per inciso, accenniamo che lo statuto di Narni del 1371 (Lib.III, c.164) comminava il rogo per il colpevole di stupro che avesse appena compiuto i quattordici anni, mentre lo statuto di Perugia del 1279, al cap.7, non faceva distinzione di età, purché il reo fosse tale "per veritatem vel famam publicam", cioè riconosciuto colpevole o notoriamente ritenuto tale ). Lo statuto di Civitella de' Conti del 1529 (L.III, cap.23) condannava al rogo il maggiore di 25 anni che stuprasse o sodomizzasse chi non ne avesse compiuto 14 ; se maggiore di tale età, al reo che non avesse pagato la prevista pena pecuniaria "il membro suo una con li testicoli decerneremo a lui... e dal corpo siano separati, accioché ad altri non gli venga volontà..."

Un altro caso era previsto dalla successiva rubrica 38 e riguardava i falsari: “si quis fabricaverit vel fabricari fecerit" "monetam falzam(sic) cuiuscumque generis et conditionis”; cioè avesse battuto o fatto battere da alcuno qualunque moneta falsa, “igne conburatur ita quod moriatur”. Praticamente, tale norma ricalca quella che, nel 1280, portò sul rogo il falsario Maestro Adamo di Brescia, che, dall’inferno dove Dante lo condanna all’idropisia, gli confessa di aver lasciato “ 'l corpo suso arso” (Divina Commedia, Inf. c.30°, v.75) per aver falsificato il fiorino d’oro; ma la medesima pena, secondo il nostro statuto, sarebbe spettata anche ai Conti Guidi di Romena, che lo avrebbero indotto a compiere il reato.

Infine, la rubrica 105 del libro IV, con palese applicazione della legge del taglione, condannava al rogo: “igne conburatur” colui che  “studiose ignem inmiserit in aliqua domo alterius posita intus civitatem Amelie vel cum igne ipsam domum conbuxerit studiose”, cioè deliberatamente avesse appiccato il fuoco ad una casa altrui posta all’interno della città; ma se la casa si fosse trovata “in aliquo castro murato” e l’incendio fosse stato dolosamente provocato da “civis vel comitatinus”, questi doveva pagare una forte pena pecuniaria; se, invece, autore dell’incendio si fosse dimostrato uno straniero (“forensis”), costui non sarebbe sfuggito alla pena capitale: “igne conburatur ita quod flammis igneis moriatur”.

A notizia, riferiamo che il citato statuto narnese, oltre che per i falsi monetari, (Lib.III, c.23) prevedeva il rogo anche per i rei di veneficio, loro mandanti e complici (Lib.III, c.22); lo statuto di Piediluco del 1417 (Lib.III, cap.31) condannava al rogo sulla pubblica piazza il notaio che avesse redatto un istrumento falso e non avesse pagato la prevista pena pecuniaria. Lo stesso statuto, per il reato di veneficio, applicava (Lib.III, cap. 69) la legge del taglione: "volumus ipsum delinquentem simili pena dapnari". Infine, lo statuto di Gubbio del 1338 comminava il rogo tanto per il falso monetario, che per l'incendiario di abitazioni cittadine (Lib.III, rr.47 e 60). Anche secondo lo statuto di Marsciano del 1531 (addiz.23) se, in seguito all'incendio doloso "domus cremata fuerit", cioè la casa fosse andata distrutta, l'incendiario "igne comburatur". Il citato statuto di Civitella de' Conti (L.III, cap.49) stabiliva che, se nell'incendio o a causa di esso fosse morto qualcuno, "ancora lui (cioè il colpevole) sia abrusciato a tale che mora". Il rogo era previsto anche dallo statuto di Terni del 1524 per gl'incendiari di case di abitazione, mentre per coloro che appiccassero il fuoco a barconi di grano o biada o in altre case non abitate, era sancito il taglio della mano destra (L.III,r. 43); per chi, poi, maggiore di anni 18, commettesse sodomia ed anche per i cristiani che usassero "carnalmente" con persona appartenente alla fede ebraica (L.III, r.32) era previsto il rogo.

Un particolare trattamento era riservato dallo statuto di Todi del 1337 (L. III, r.80) al notaio che avesse scritto "aliquid contra pacificum statum civitatis tudertine": era condannato al taglio della testa e "postquam decapitatus fuerit, eius corpus totaliter comburatur"; è uno dei rari esempi di doppia esecuzione: dopo la decapitazione, il rogo!  

Ma la pena di morte riservata dagli statuti amerini ai delitti ritenuti della maggore  gravità, era la “pastinatio”.

Di cosa si trattava? Nei vocabolari latini consultati, detto termine ha il significato: “lo zappare il terreno per piantar viti”. Che relazione vi poteva essere con una pena capitale? Gli statuti del 1330 e del 1346 si limitano laconicamente a formulare questa condanna in quattro parole: “pastinetur, ita quod moriatur”. 

Per lungo tempo, si è cercato di dare una plausibile risposta al quesito, giovandosi anche del parere di qualche esperto. Si era concordemente giunti a formulare l’ipotesi che l’esecuzione consistesse in una letale bastonatura, forse basandosi su di una improbabile assonanza fra i termini “pastinetur” e “bastonetur”, quest’ultimo derivante approssimativamente dall’adattamento in forma verbale dei termini latini “bastum” o “basto”, usati come voce tarda per significare “bastone”.

Ma non era così. La sconcertante verità emerse dalla lettura delle rubriche 33 e 34 del libro IV dell’inedito statuto del XV secolo. L’assassino (r.33) “ducatur trascinando ad caudam cuiusdam asini usque ad locum justitie consuetum et ibi pastinetur in terram more vitis, ita quod moriatur”. In breve, il delinquente veniva trascinato sul luogo dell’esecuzione legato alla coda di un asino e qui piantato in terra, come fosse un vitigno, finché morte non sopraggiungesse.

Non sappiamo se il malcapitato doveva venir infilato nel terreno a testa in su -e ciò ne avrebbe grandemente prolungato l’agonia- oppure a capofitto -e questo avrebbe comportato in breve la morte per asfissia- ; in entrambi i casi, ci si presenterebbe come un supplizio di inaudita crudeltà, degno del più raffinato despota orientale!

Ma è più probabile che il reo venisse immesso in terra a testa in giù e che la "pastinatio" non fosse che un equivalente della propagginazione (dal tardo latino "propaginatio"), già noto supplizio medievale, al quale fa cenno lo stesso Dante (Divina Commedia, Inferno, Canto XIX, versi 46-51) quando, trovandosi ai piedi della buca nella quale giaceva confitto papa Niccolò III, il Poeta gli chiede: "o qual che se' che 'l di su tien di sotto, anima trista, come pal commessa?".

Ad ogni modo, tale inusitato sistema di dare la morte non figura in nessun altro dei numerosi statuti umbri consultati. Poco invidiabile prerogativa!

Per inciso, va detto che, se vi fosse comunque qualcuno che se la sentisse di incolpare i nostri antenati vissuti nei secoli presi in esame, di eccessiva efferatezza, ricordi che, fra le esecuzioni capitali ancora praticate in zona fino alla metà del secolo XIX, erano comprese la mazzolatura e lo squartamento ed, in alcuni Paesi ritenuti campioni di civiltà, è tuttora praticata l’esecuzione a mezzo sedia elettrica, camera a gas o iniezione di sostanze venefiche. 

 Inoltre, ci consoli pensare che, all’atto pratico, la pena della “pastinatio” non abbia forse quasi mai avuto reale applicazione e sia stata soprattutto impiegata come un efficace deterrente.  

 Simile sorte detti statuti riservavano comunque ai pubblici traditori, che avessero in qualche modo attentato allo stato pacifico della città (r.34). Si giustifica, quindi, che qualsiasi azione tendente ad indebolire le difese cittadine, che chiunque operasse anche soltanto rimuovendo o danneggiando le sbarre -o le catene- poste all'interno delle porte principali di accesso alla Città  ("Pusciolini et Gilionis") per impedirne l'entrata, particolarmente nel periodo di turbolenze ("tempore suspitionis seu turbationis"), venisse condannata con la massima pena della "pastinatio" (Statuti del 1330, L.V, rr.41 e 43 e del 1346, L. VI, r.280). 

Lo stesso crudele modo di trovare la morte attendeva chi si fosse reso reo di tradimento contro il Comune di Amelia, secondo la rubrica 35 del libro V dello statuto del 1330, quando da tale azione ne derivasse per esso “dampnum seu periculum seu desctructionem” e chiunque avesse preso le difese del traditore doveva venir bandito dalla Città “usque in tertiam generationem”.

Se il tradimento non veniva posto in essere, ma non per suo merito, il reo doveva pagare mille libre; se il pagamento non seguiva entro dieci giorni dalla condanna, si dava luogo alla “pastinatio”.

Anche le rubriche 37 del l. V dello statuto del 1330, 132 di quello del 1346 e 25 del L. IV dello statuto quattrocentesco comminavano tale pena capitale per chi facesse “cavalcatam vel cavalcata fuerit vel in congregatione” contro il Comune di Amelia e suo distretto, ”ad offendendum vel dampnum faciendum”. Era previsto, altresì, che “unicuique sit licitum tales cavalcantes capere offendere et occidere sine pena”; cioè che chiunque potesse catturare i colpevoli ed anche ucciderli impunemente.

 A questo punto della nostra trattazione, ci è sembrato opportuno inserire il caso occorso il giorno 8 Novembre 1459, quando il Consiglio dei Dieci fu chiamato a decidere la sorte di tale Angelo da Camerata (verosimilmente un esponente della fazione chiaravallese), giudicato dalle Autorità amerine reo di tradimento e di turbativa dello stato pacifico della Città e condannato "in fortiam iuris et statutorum" ad essere trascinato "usque ad locum iustitie deputatum et ibi plantari ita quod moriatur", dove il termine "plantari", cioè a venir letteralmente piantato in terra, richiama inequivocabilmente la pena della "pastinatio". Poiché, in suo soccorso si mossero alcune persone di alto rango, fra le quali il "Magnifico d.no Johanni de Malavoltis", nel Consiglio dei Dieci si fa presente se, per diverse buone ragioni ("multis de causis"), non sia il caso di commutare la "pastinatio" con il taglio della testa ("sibi debeat capud (sic) incidere").

La questione è di tale rilevanza, che si ritiene opportuno portarla dinanzi al Consiglio Generale, il quale, riunitosi il giorno appresso, delibera che, nei confronti di Angelo da Camerata, in considerazione anche della sua appartenenza al ceto nobiliare ("ejus nobilitate"), "incidatur sibi capud" e non si applichi la pena prevista dagli statuti. Si decide, inoltre, che, a cura del Comune, si acquistino due braccia di panno nero, in cui avvolgerne il corpo, in modo da far "godere" al condannato del trattamento riservato alle persone del suo rango ("more Nobilium").    

Diverse norme statutarie prevedevano la “pena capitis” per svariati altri reati, pur senza specificarne il sistema di attuazione, che veniva lasciato “arbitrio potestatis”. E, come si è visto, ve n'era un’ampia scelta.

E’ il caso contemplato contro coloro che avessero fatto entrare forestieri in città, se “per eos vel eorum aliquem bellum insurget vel furor armorum vel brige ad arma homines civitatis predicte se parando, puniatur in persona ita quod moriatur”; cioè  se a causa delle loro azioni  o di qualcuno di essi ne derivassero combattimenti o tumulti armati o comunque disordini ed incitamenti verso i cittadini a far ricorso alle armi (Statuto 1330, L.V, r.8 e Statuto del 1346, r.119).

Così pure per chi portasse guerra all’interno della città e facesse brecce nelle mura: se “perforaverit vel perforari fecerit aliquem murum” e cercasse di penetrare “aliunde per portas”, cioè da aperture diverse dalle porte cittadine. (Statuto 1330, L.V, r.38 e Statuto 1346, r.133).

Un caso singolare è quello previsto dalla rubrica 36 del libro IV dello statuto del 1441. Veniva comminata la pena capitale tanto per colui che “exforzaverit vel carnaliter cognoscat  vel per vim carnaliter cognoverit aliquam mulierem viduam seu virginem seu nuptam bone conditionis et fame” ; cioè chi avesse violentato una vedova, una vergine o una donna sposata godente di buona condizione e reputazione, quanto per la “mulier nupta alias bone fame et conditionis adulterium commictens”; cioè per la donna sposata di buona condizione e fama che commettesse adulterio. In quest’ultimo caso, il marito “cornificato” aveva diritto di ritenere la dote.

La pena capitale era altresì comminata dalla rubrica 19 del libro VI dello stesso statuto del 1441 per il "comitatinus" che, in frode ai diritti del Comune, avesse osato "facere se vassallum vel perpetuo subiecta persona alicuius domini vel baronis", cioè avesse accettato di rendersi soggetto alla signoria perpetua di qualche nobile, per sottrarre sé ed il suo patrimonio alle prestazioni e contribuzioni dovute per legge al suddetto Comune. 

A notizia, si riferisce che anche lo statuto di Piediluco del 1417, sanciva talora (L.III, cap.38 "De pena facentium prodimentum") la pena capitale, senza peraltro specificarne il modo di attuazione, limitandosi, tuttavia, a stabilire che il reo "pena capitis puniatur, ita quod penitus moriatur et ejus anima a corpore separetur". 

In tutti i casi in cui gli statuti prevedevano l’applicazione della pena capitale, i beni del condannato venivano incamerati dal Comune. 

Ciò è sancito in modo inequivoco nella rubrica 38 del Libro V dello statuto del 1330: “Qui autem propter aliquod delictum ex forma dicti statuti perderet personam, perdat similiter omnia bona sua et ipso jure comuni predicto confuschentur (sic)".

Prima di procedere oltre nella presente disamina, si vorrebbe far cenno ad un argomento che, pur non rientrando "sensu stricto" fra le pene corporali e sebbene dettato dalla necessità di provvedere in qualche modo -considerati i tempi- alla conservazione della salute della cittadinanza ("ad sanitatem conservandam"), spesso equivaleva ad una condanna forse ancor più crudele di quella capitale, perché diretta verso persone disgraziate ed innocenti.

Ci si riferisce a quanto prescritto dalla rubrica 37 del libro VI dello statuto amerino del 1441 e ripetuto nelle sue successive elaborazioni del XVI secolo.

Detta norma  prescriveva per i lebbrosi ed i "malesanos" l'allontanamento dalla Città "ad remotas partes, absque spe redeundi", cioè verso terre lontane, senza speranza di ritorno. Non si possono leggere tali tremende espressioni, senza provare un brivido di orrore e di pietà!

 Passiamo ora ad esaminare le altre pene corporali di minore gravità sancite dai nostri statuti.

Dalla rubrica 4 del L.I dello statuto del 1346, si deduce che l’applicazione della tortura -“ut reperiatur veritas”, cioè alla ricerca della verità- faceva parte delle procedure giudiziarie, ma doveva essere autorizzata dagli Anziani: “si...Antiani licentiam non dederint, aliquis nullatenus tormentetur...Et si tormentaretur aliquis sine licentia Antianorum, confexio facta per tormenta non valeat ipso jure”. In parole povere, senza licenza anzianale, la confessione resa dal torturato non poteva avere alcun valore probatorio. Magra soddisfazione per il disgraziato sottoposto a tale drastico trattamento!

Una simile norma, con qualche variante, si trova nello statuto di Foce del 1367, alla rubrica 135: "potestas non possit aliquem tormentari" senza il consenso dei Consiglieri e del Camerario, a meno che non si trattasse di "publicus latro vel homo male fame".

Non conosciamo con certezza le procedure adottate dai nostri statuti nell'applicazione della tortura. Possiamo soltanto riferire che, almeno nel XV secolo, il sistema più comune, anche se non il solo, doveva consistere nell'applicazione di un numero variabile di "tratti di corda": il malcapitato veniva sollevato con una fune che gli legava i polsi dietro la schiena e lasciato poi cadere di colpo: la conseguenza era quasi sempre la slogatura degli arti superiori . Tanto si evince dalle riformanze dell'anno 1461, dove, sotto la data del 30 Novembre, si pone a discrezione dei provveditori nominati nel Consiglio Generale per il buon andamento della guerra in corso contro i Chiaravallesi di Todi, di "poni facere ad torturam et torquere cum tractibus funium" coloro che disobbedissero ai loro ordini. Anche fra le disposizioni emanate dal Governatore il 30 Novembre 1491, erano previsti due tratti di corda per chi portasse armi. Simile trattamento era riservato a quelli che, nel periodo in cui infieriva la peste nel 1478, uscissero dal territorio amerino. Qualche anno prima, nel 1473, quando ancora si temeva solamente il contagio, ogni epirota o albanese, probabilmente immigrato a Sambucetole, se fosse giunto in Città da tre giorni, entro tre ore doveva uscirne, sotto pena di subire la tortura di dieci colpi d'aculeo, applicabile anche a coloro che gli avessero dato ricetto. Anche nel successivo sec.XVI veniva praticata la tortura dei tratti di fune (V. rubr.XI del L. III dello statuto di Terni del 1524. V. anche il processo intentato dinanzi al podestà di Giove contro tal Bernardino S. il 25.9.1595, condannato, fra l'altro, a subire "trium ictuum funis publice") .

La tortura era contemplata anche dagli statuti dei Castelli, come quello di Foce del 1367 (cap.134) e di Porchiano  del 1449 (L.III, r.67), sebbene non venissero in essi sancite pene per i reati più gravi, che erano di competenza dei Comuni maggiori, dai quali detti castelli dipendevano giuridicamente. In particolare, lo statuto di Porchiano, alla rubrica 77 del L.III trattava "Delli casi nelli quali procede il Podestà d'Amelia", che venivano riassunti come segue: "crimen lese maiestatis, homicidio, incendio, rapina (ratto) di femine, o di furto, et li malefitij che fossero con sangue" .

La rubrica 167 del libro V dello statuto del 1346, per coloro che “tosavano” le monete d’oro o d’argento -cioè ne limavano il margine- era prevista una pena pecuniaria di ben 100 libre, da pagarsi entro 10 giorni dal deposito della sentenza di condanna - “a die late sententie”-, trascorsi i quali, “amputetur manus dextera”: gli doveva venire amputata la mano destra . 

Similmente veniva punito chi non pagava entro 10 giorni dalla condanna la pena pecuniaria di 500 libre inflitta a chiunque “prestiterit seu dederit auxilium consilium vel favorem”, cioè avesse prestato aiuto o fornito consiglio all’autore di un omicidio o comunque ne fosse il mandante od un complice: “una manus amputetur eidem ita quod a bracchio (sic) separetur” (R. 32, L.IV, Statuto del 1441).

Per i minori di dodici anni "non doli capaces", cioè privi di intenzione malevola, la rubrica 31 del L. IV dello stesso statuto del 1441 non prevedeva pena alcuna per l'omicidio da loro commesso. Ma se il minore, di età compresa fra i dieci e i dodici anni, avesse compiuto un tale reato "studiose et appensate", cioè se fossero state accertate in lui malizia e premeditazione, non venendo soddisfatta la pesante pena pecuniaria di mille libre entro dieci giorni, si sarebbe proceduto al taglio di una mano.

Alla rubrica 59  del Libro IV dello statuto sopra citato, è detto: “Si quis amputaverit alicui manum pedem nasum vel aliud membrum principale vel oculum studiose offenderit vel cecaverit”, cioè chiunque avesse amputato od offeso deliberatamente un membro di un’altra pesona, sebbene, secondo giustizia, fosse passibile delle sanzioni previste  dalla “lex cornelia”  (probabilmente la sillana “lex cornelia de iniuriis”, dell’82 a.C., che consentiva alla vittima di provocare contro l’autore l’azione criminale), tuttavia, “tantum de benegnitate” (cioè a titolo di mera benevolenza), si stabiliva che il reo venisse condannato a pagare 200 fiorini d’oro, ma, in caso di mancato pagamento entro 10 giorni, “simile membrum amputetur eidem vel etiam offendeatur (sic)”; cioè gli doveva venire applicata la legge del taglione ed, inoltre, esser condotto a frustate  “nudis carnibus” “ad locum justitie” ed  espulso dalla città e suo contado, né poteva farvi rientro prima di cinque anni. “Si interim redierit, amputetur sibi aliud simile membrum”; se vi avesse fatto ritorno prima, gli doveva venire amputato un altro membro equivalente. E, ciò, con buona pace della mera benevolenza!

Un'analoga norma era prevista anche dallo statuto di Piediluco del 1417 (Lib.III, cap.12), mentre nello statuto di Perugia del 1279 il taglio della mano destra era previsto per divesi reati, fra i quali per colui che percoteva "aliquem cum armis" (cap.288), per i ladri ed i ricettatori (cap.293), per i falsi testimoni (cap.315), per il notaio "faciens scienter falsum instrumentum" (cap.316), per colui che gettasse pietre di notte contro una casa altrui (cap.343) ed in altri svariati casi, sempre però che non venisse pagata la pena pecuniaria prevista. Il taglio della mano era comminato anche dallo statuto di Terni del 1524 per colui che "fabricarà o vero farà fare falzo instrumento" o se ne sarà scientemente avvalso (L.III, r.33). 

Il “prodimentum” contro la Città era punito, come abbiamo visto, con la pena capitale; ma se questo era diretto contro “rerum et jurium” di “speciales personas”, al colpevole era applicata una pena pecuniaria; se questa non veniva pagata entro dieci giorni dalla condanna, “ei lingua de ore eius evulsetur taliter et oculus de capite, ita quod loqui non valeat et nec videre oculo sic evulso”; cioè gli doveva venir tagliata la lingua e cavato un occhio (Statuto del 1330, l.V, r.35). 

Il taglio della lingua era altresì previsto dalla r.62 del l.V dello statuto del 1330 e dalla omologa rubrica 143 dello statuto del 1346, per colui che si rendesse reo di alterazione o falsificazione di documenti del Comune: veniva bandito e dichiarato “infamis” ed i suoi beni sottoposti a guasto e confisca; se non avesse osservato il bando e fosse caduto “in fortiam comunis”, “amputetur ei lingua, ita quod beneficium locutionis perdat sive admictat”.

Per inciso, si riferisce che lo statuto di Perugia del 1279 comminava il taglio della lingua per colui che , nel Consiglio per l'elezione del podestà "audeat vocare aliquem" o "nominare in potestatem ad vocem" cioè per chi facesse ad alta voce il nome del candidato (cap.3) o per chi cercasse di corrompere il podestà, il  capitano o altro ufficiale (cap.141), mentre, al testimone che si fosse lasciato corrompere, "manum et linguam sibi faciant amputari, ita quod de cetero non loquatur" (cap.315). In tutti i casi predetti, l'esecuzione delle pene corporali seguiva al mancato pagamento delle previste pene pecuniarie. Una singolare disposizione era prevista da detto statuto perugino per la donna che fosse giaciuta con un lebbroso: oltre alla fustigazione per tutta la città, doveva venirle tagliato il naso: "nasum de facie detruncari" (cap.341). 

 Nel nostro statuto del 1346, per coloro che, avendo commesso qualche reato ("ob malleficium"), fossero stati condannati a pene pecuniarie e non ne effettuassero il pagamento entro i termini stabiliti, la rubrica 177 del L.V formulava una graduatoria articolata secondo l’entità della somma dovuta: 

-da 100 libre in su,  gli sarà fatto amputare “unum ex pedibus eius”;

-da 50 a 100 libre, gli verrà tagliata “unam auriculam de suo capite ita et taliter quod a capite separetur” e ciò sia fatto, ”ita quod abstantibus appareat evidenter”; cioè che a tutti potesse risultare evidente quale reato era stato commesso;

-fino a 50 libre, il podestà sia tenuto ad “eum frusticari facere nudis carnibus tuba sonando a scalis palatii...comunis usque extra portam busciolini” , cioè a farlo frustare sulla nuda carne ed, a suono di tromba,  dalle scale del palazzo comunale, venga accompagnato fino a fuori della porta Busolina . La persona così condannata non poteva far ritorno in città, se prima non avesse pagato l’importo della multa.  Rientrando malgrado il divieto, “modo predicto nudis carnibus frusticetur”; cioè si sarebbe ripetura l’operazione di frustatura.

Nello statuto del 1441, la r.39 del L.IV prevedeva, per i calunniatori, la imposizione sul capo di un particolare cappello a forma di mitra e, con quello in testa, “fustigando ducatur per totam civitatem predictam nudis carnibus ita quod hec pena...ceteris transeat in exemplum”, il colpevole doveva venir condotto a suon di frusta per l'intera  città; e ciò doveva servire d'esempio a tutti gli altri . 

La fustigazione era, del pari, comminata ai bestemmiatori: “si quis blasfemaverit deum, vel beatam Virginem Mariam eius matrem vel aliquem ex suis sanctis”, se non pagava entro dieci giorni dalla condanna la pena pecuniaria di 25 libre: ”nudis carnibus frusticetur per totam terram et expellatur extra terram et non possit reintrare donec solverit dictam penam” (Statuto 1346, R.162).

Anche a Perugia, il reo di blasfemia veniva fustigato "per civitatem et burgos", oppure doveva essere legato ad una catena ed ivi "commorari" ad arbitrio del podestà e del capitano (Statuto del 1279, cap.340). A Lugnano, la bestemmia era punita con una pena pecuniaria (Statuto del 1508, L.III, r.1), ma chi deturpasse o comunque violasse un'immagine di Gesù Cristo o della Madonna, non pagando la prevista pena pecuniaria, "acriter fustigetur per loco publica", sarebbe cioè stato sottoposto a pubblica frustatura (L.III, r.56). Per un simile reato, lo statuto di Terni del 1524 prevedeva addirittura il taglio della mano destra (L.III, r.18).

 A Narni (Statuto del 1371, L.III, cap.9) si punivano i bestemmiatori mettendo loro “forficulus (una specie di forbice) in lingua” e, con quello, venivano condotti pubblicamente in giro per la città, al suono delle trombe, lungo il percorso che, dalla chiesa di S. Giacomo, conduce all’ospedale di S. Luca. A Gubbio, la bestemmia -per coloro che non pagavano la pena pecuniaria prevista- veniva punita addirittura con il taglio della lingua (Statuto del 1338, Lib.III, r.24), mentre a chi facesse falsa testimonianza, veniva posto un ferro nella lingua, legato ad una funicella e, con questa e con una corona di carta sul capo, recante la scritta "ego sum testis qui falsum testimonium perhibui" (sono un testimonio che ha deposto il falso), veniva condotto a frustate per tutta la città (Lib.III, r.49). Lo statuto di Terni del 1524 sanciva, per gli spergiuri, il taglio della mano destra (L.III, r.27).

Lo statuto del 1441 comminava, come abbiamo visto sopra, la pena capitale all’incendiario di case; se oggetto del reato fosse stata “gripta vel cappanna”, il mancato pagamento della pena pecuniaria prevista in 65 libre entro dieci giorni dalla condanna, avrebbe comportato per il colpevole un ben più severo castigo: “ducatur ad locum justitie et ibi una manus et unus pes amputetur(sic)”; cioè l’amputazione di una mano e di un piede (r.105, L.IV). 

Un simile trattamento sarebbe spettato al forestiero (“forensis”) che avesse appiccato il fuoco “in barchone sive meta frumenti vel leguminis”, cioè al barcone del grano (alla “mèta”, come ancora ai tempi nostri veniva chiamato). E ciò potrebbe dare la misura dell’importanza che, a quei tempi, rappresentava il raccolto dei cereali e dei legumi.

La rubrica 102 del Libro V dello statuto del 1441, per lo straniero che "cum armis et sine" fosse voluto entrare a forza ("violenter") da una porta della Città e contro la volontà del custode della stessa e senza esserne autorizzato, se non avesse pagato nei termini di legge la salata multa di mille libre,"unus pes amputetur eidem". 

Dallo stesso statuto sappiamo che, chi avesse sodomizzato “aliquem puerum”,  se maggiore di anni 30, era condannato al rogo. Ma se di età compresa fra i 20 ed i 30 anni, doveva pagare 500 libre, che raddoppiavano, se non pagate entro 10 giorni. Se, poi, l’età del delinquente si abbassava tra i 14 ed il 20 anni, “nudis carnibus frusticetur per totam civitatem”. Se minore di 14 anni, pagherà 25 libre, ma, in caso di recidiva, sarà frustato “ut dictum est”. Anche lo statuto di Gubbio del 1338 (Lib.III, r.74) puniva il vizio sodomitico con la fustigazione ("fustigetur per omnem Eugubium") ed il successivo bando dalla Città.

Alcune norme statutarie prevedevano, per determinati reati, pene corporali, senza peraltro indicare quali e di che entità, ma rimettendone la natura e la misura a coloro che erano deputati all’applicazione delle disposizioni punitive.

Così, la rubrica 20 del libro V dello statuto del 1330 e la omologa r.124 dello statuto del 1346, sancivano per gli “incantatores” (maghi, stregoni, fattucchiere e simili), trovati in città, il divieto di esercitare le loro attività, pretendendo da essi la promessa, sotto giuramento, che, non rispettandone l’osservanza, si sarebbe proceduto contro di loro con l’applicazione di una pena pecuniaria di 50 libre ed, in caso di recidiva,  “puniatur in persona.. arbitrio potestatis”.

Da quanto sopra esposto, si potrebbe dedurre che, almeno nel corso del XIV secolo, in Amelia vi fosse una certa tolleranza per coloro che erano ritenuti praticare la stregoneria. Ma già verso la metà del secolo successivo, era avvertita la necessità di calcare la mano su tale genere di attività, almeno a giudicare dalla delibera adottata il 24 Settembre 1446, nella quale, in considerazione che era caduta nelle mani del podestà "quedam mulier malefica et facturaria" e dovendo constatare che, di recente, diverse altre donne vi fossero state che, con le loro arti malefiche, "multa dampna hominibus et personis dicte civitatis intulerunt", in considerazione che, poiché negli statuti amerini non si faceva menzione ("nullam fieret mentionem") di norme tendenti a colpire adeguatamente tali atti che, pure, "sint atrocissimis penis castiganda", si riteneva "utilissimum et necessarium" che si conferissero al podestà tutti gli opportuni poteri "inquirendi, procedendi et puniendi".

A titolo di semplice curiosità, annotiamo che molto meno a buon mercato chi avesse operato magie o incantesimi se la sarebbe cavata circa sessant’anni più tardi, se fosse incorso nei rigori dello statuto di Lugnano in Teverina del 1508, che, alla rubrica 44 del libro III prevedeva addirittura il rogo per coloro che fossero stati pubblicamente accusati di esercitare l’arte di “incantator”. Anche lo statuto di Orvieto del 1581 prevedeva la pena capitale in simili casi: la rubrica 30 del L.III ne forniva la seguente singolare formulazione: "Si qui vel que maleficus vel malefica, mathematicus vel mathematica maleficium aut scelus mathematicum comictat, poena capitis puniatur" (dove il termine "maleficus" era usato in luogo di "incantator" e quello di "mathematicus" aveva presumibilmente il significato di astrologo).

I furti perpetrati “de nocte” venivano perseguiti con una pena pecuniaria che era raddoppiata, se rapportata a quelli commessi “de die” e che, se non pagata, avrebbe dato luogo all’applicazione di pene corporali: “puniatur in persona secundum formam statuti communis positam sub rubrica De pena frangentium domum grictam vel cappannam”, cioè con la pena  sancita per i furti con effrazione (Statuto 1330, l.V, r.85).

Sempre a notizia, riferiamo che, per simili reati, il richiamato statuto di Lugnano prevedeva (r.21 del l.III) la fustigazione per tutto il territorio ed un marchio a fuoco in fronte, con un ferro rovente a forma di mezzaluna (insegna "parlante" della cittadina).

Pene particolari erano comminate in determinate circostanze.

Così, se un padre lo riteneva necessario al fine di correggere i difetti di un figlio, poteva richiedere al podestà di “capere, ducere et detinere et mictere filium eius in campanile paglatia et ferris et cippis”; cioè di far rinchiudere il figlio nel campanile ed ivi porlo a giacere su di un pagliericcio ed anche ai ferri e in ceppi (Statuto 1346, r.46 e statuto del 1441, rubr.37, L.I). La norma, ai giorni nostri, può senz’altro apparire di una sconcertante, crudele severità, ma la sua giusta chiave di lettura va rapportata al relativo contesto storico .

Un simile trattamento era riservato, secondo la rubrica 89 del libro VI dello statuto del 1330, per coloro che, con il loro comportamento illecito, avessero provocato la concessione di rappresaglie “contra commune Amelie et speciales personas”: “ cogantur et constringantur personaliter et realiter” in ceppi e ai ferri nel campanile. 

Anche colui che, per debiti, avesse ceduto i suoi beni ai creditori, dopo aver subito l’umiliante procedura che descriveremo in chiusura della presente trattazione, a cura del podestà  veniva rinchiuso nel campanile ed ivi restare per un anno, trascorso il quale, doveva venir espulso dalla città e suo distretto per ben tre anni; se ne fosse tornato prima, “frusticetur circum circa civitatis Amelie nudis spatulis”; cioè  veniva condotto a frustate sulle spalle nude per tutto il perimetro della città (Statuto 1330, l.IV, r.139). 

A notizia, si riferisce il curioso trattamento riservato dallo statuto di Perugia del 1279 a coloro che dessero schiaffi o pugni "in facie" ad alcuno: oltre al pagamento di una multa, dovevano ricevere dal podestà o dal capitano altrettanti schiaffi e pugni dove e come esso li diede, se l'offeso non avesse consentito a condonarglieli o non preferisse restituirglieli di persona (cap.290). 

Un cenno merita cercare di conoscere a chi spettasse l’ingrato compito di dare esecuzione alle pene corporali che dovevano seguire dopo l’avvenuta condanna del reo, che già si trovasse “in fortiam communis”.

Quasi certamente, per le sentenze di morte, doveva esservi una persona deputata espressamente dalle autorità a tale triste ufficio: la parola “boia” evoca da sempre il materiale esecutore delle pene capitali.

 Si sarebbe portati a credere che anche per l’applicazione della tortura, ci si avvalesse dell’opera dello stesso carnefice. Ma per le altre pene corporali, probabilmente così non era o, perlomeno, non sempre questo si verificava, potendo invece venir dalle stesse autorità impiegati nella incresciosa incombenza anche dei privati cittadini, che dovevano prestare la loro opera, presumibilmente gratuita, collaborando con il braccio armato della legge e su comando degli ufficiali  a ciò preposti.

Ci induce a pensarlo quanto stabilito nella rubrica 106 del Libro IV dello statuto quattrocentesco (“De non capiendo artifices pro executione sententie corporalis”) che, “ne artifices forenses maxime acti ad texendum seu laborandum in arte lane in Civitate Amelie capiantur vel graventur pro executionibus corporalibus”, cioè, affinché gli esperti forestieri dell’arte della lana stabilitisi in Città non venissero obbligati ad eseguire le pene corporali, sanciva “quod nullus officialis civitatis Amelie possit vel debeat  capere vel invitum cogere aliquem forensem tessitorem vel laborantem in arte lane ratione executionis personalis contra aliquem”, vale a dire che nessun ufficiale potesse costringere contro sua volontà alcun tessitore forestiero a tale ingrata bisogna, giustificando una simile disposizione con la volontà di non fornire a tali artigiani, evidentemente molto apprezzati e richiesti a livello locale, “materiam recedendi vel non veniendi ad ipsam civitatem”, cioè il pretesto di lasciare la città o di non venire a stabilirsi in essa. 

 La soggezione alle pene corporali da parte di chiunque commettesse reati per i quali la loro applicazione era prevista, riguardava la generalità dei cittadini, né -come era giusto che fosse- erano ammesse deroghe o ingiustificate immunità.

Tuttavia, in considerazione, forse, dell’importanza e della dignità dell’ufficio anzianale, ma più probabilmente per non creare possibili attriti fra le due magistrature maggiori -podestaria e anzianato- nei confronti dei membri di quest’ultimo, la rubrica 30 del Libro II dello statuto del 1346 vietava al podestà  e suoi ufficiali, “toto tempore sue potestarie” di “procedere contra eos occasione alicuius malleficij per eos commissi nec condempnare, exceptis homicidio, ractu(sic) mulierum, prodimento, rapina, adulterio, incendio et falsitate”. Praticamente, il podestà in carica non poteva procedere contro “aliquem astantem in officio ançianatus” per reati da lui commessi, salvo che si trattasse di delitti della massima gravità, quali l’omicidio, il ratto di donne, il tradimento, la rapina, l’adulterio, l’incendio ed il falso. Per gli altri di minore entità, la punizione doveva venir comminata “per primum potestatem venturum”, cioè dal podestà nominato dopo quello in carica al tempo  del commesso reato; e ciò malgrado che il titolo della rubrica: “de non constrignendo(sic) d.nos Ançianos populi per potestatem durante eorum officio” lasci intravedere una possibile interpretazione  a favore  della  non punibilità anche durante l’ufficio anzianale, oltreché nel corso di quello podestarile.

   

Per cercare di concludere, con tinte meno fosche, questa triste rassegna di umane sofferenze, faremo ricorso a qualche nota di colore, accennando ad alcune disposizioni che, malgrado il doloroso risvolto di una dignità ferita, potrebbero essere in grado di strapparci qualche  pur amaro sorriso.

La prima è contenuta nella rubrica 36 del Libro V dello statuto del 1441, che, per la sua singolarità, non sarebbe venuta in mente neppure al più fantasioso legislatore. Trattasi, più che di una pena da eseguirsi dal potere pubblico, di una facoltà della quale può avvalersi un privato cittadino; in particolare colui che ha portato a macellare una bestia al mattatoio comunale, che richieda, com'è suo diritto, all'addetto al trasporto delle carni, chiamato "carniferulus", che queste vengano portate dal mattatoio alla sua casa. Se costui avrà opposto un diniego, l'interessato  avrà facoltà, "sine pena", cioè senza incorrere in sanzioni di legge, di prendere "per capillos" il recalcitrante "carniferulus" "et extrassinari per capillos predictos, tamen cum moderamine", cioè a trascinarlo in questa scomoda posizione, finché non avrà aderito al richiesto trasporto. La crudezza della norma è tuttavia addolcita dalla prescrizione che tale drastico castigo venga applicato con una certa moderazione.

Un'altra norma è quella contemplata dalla rubrica 2 del libro VIII dello statuto del 1330 e dalla omologa rubrica 124 dello statuto del 1346.

  Il castaldo che avesse dato in pegno qualche oggetto avuto in custodia dal Comune a garanzia di un credito, oltre alla restituzione dello stesso, “ligetur et stet ligatus in palatio communis in camisia per totam diem” ; cioè doveva restare legato, in camicia, nel palazzo comunale per un’intera giornata.

La pena della permanenza "in camisia", unita a quella "in cippis", era comminata dalla rubrica 109 dello statuto di Foce del 1367 al figlio che avesse percosso i genitori.

L'ultima norma di cui ci occuperemo, riguarda la curiosa procedura cui doveva sottostare il fallito, che avesse deciso di cedere tutti i suoi beni ai creditori.

Era già stata presa in considerazione e deliberata dal consiglio anzianale sotto la data del 1° Agosto 1329 e, con qualche  modesta variante, venne poi introdotta nello statuto del 1330, alla rubrica 139 del libro IV.

Noi  cercheremo di trarre, da entrambe dette disposizioni, i passi più caratteristici.  

Chiunque, per debiti, intendesse cedere ai creditori i suoi beni , “cum sua familia” “venire et stare debeat in medietate platee veteris dicti communis in die sabati” “durante” “foro pleno existente in dicta platea” “sonantibus binis tubis, citatis omnibus creditoribus suis”; “sit expoliatus” “in camisia, sine serabulis et capite discoperto et percutiet tribus vicibus nates” “ex toto discopertas ad pilonem communis qui stat in medio dicte platee”, “hoc facto ascendat ita expoliatus super dicto pilono” “dicendo qualibet vice alta voce: Renunço ali beni, pagateve credeturi” oppure, secondo l’altra versione: “Vengase appagare li creituri mei”!

Sembra di assistere ad un rituale tanto crudele quanto grottesco: vedere il povero fallito, insieme alla famiglia, giungere in un giorno di sabato di mercato, nel mezzo della piazza vecchia, quando è maggiormente affollata, al suono di due trombe, dove lo attendono, già convocati, i suoi creditori e quivi, venire spogliato, in camicia e senza brache, a capo scoperto, e battere per tre volte le natiche nude sul pilone piantato al centro della piazza; indi salire sul medesimo e gridare per tre volte la sua rinunzia ai beni in favore dei creditori. 

Per sopportare una siffatta umiliazione, era indubbiamente necessaria una notevole dose di coraggio!

 Una legittima curiosità potrebbe, a questo punto, sfiorare la nostra mente: considerata la frequenza dei fallimenti nel corso dei secoli, se ancor oggi fosse in vigore una simile procedura, a quale grado di usura sarebbe giunto quel vergognoso pilone?


Con tale interrogativo, cui nessuno sarebbe in grado di fornire una risposta, terminiamo questa nostra ricerca, che di ben altre più approfondite indagini avrebbe avuto bisogno, per risultare sufficientemente esaustiva.

Ne affidiamo il compito a chi, fornito di maggior tempo a disposizione ed almeno di altrettanta buona volontà, vorrà cimentarsi a compiere una più estesa investigazione nel nostro passato, del quale il tema trattato costituisce, anche se non la migliore, pur sempre una parte integrante.

  


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B I B L I 0 G R A F I A


ARCHIVIO COMUNALE DI AMELIA 

- Statuto cittadino manoscritto del 1330

- Statuto cittadino manoscritto del 1346

- Statuto cittadino manoscritto del 1441

- Copia manoscritta del 1560 dello statuto del 1441

- Riformanze degli anni 1329, 1331, 1441, 1446, 1459, 1461, 1473, 1478, 1491

- Statuti di Porchiano

- Statuto manoscritto di Foce del 1367

ARCHIVIO COMUNALE DI GUARDEA - Bando del 21.5.1581

ARCHIVIO DI STATO Sez. di Gubbio - Copia manoscritta del 1371 dello statuto cittadino del 1338

ARCHIVIO DI STATO Sez. di Orvieto - Statuto cittadino del 1581

ARCHIVIO DI STATO Sez. di Terni - Archivium Franciscanum Historicum An. XLIX - 1956, pp.370 e segg.

ARCHIVIO privato della Famiglia Farrattini

ARCHIVIO STORICO COMUNALE DI TODI - Copia a stampa del 1551 dello statuto cittadino del 1337

BIBLIOTECA COMUNALE DI NARNI - Copia a stampa del 1716 dello statuto cittadino del 1371

BIBLIOTECA COMUNALE DI TERNI 

- Copia manoscritta del 1546 dello statuto cittadino del 1524 

- Statuto di Collescipoli del 1453

BIBLIOTECA DEL SENATO DELLA REPUBBLICA - Copia manoscritta del 1567  dello statuto di Amelia del 1441 (Ms.208)

DEPUTAZIONE DI STORIA PATRIA PER L'UMBRIA - Statuto del Comune di Perugia del 1279 - Tip. Porziuncola - Assisi - 1996

LIBER CRIMINALIUM del Comune di Giove degli Anni 1594-1598 Archivio di famiglia dell'A.

LIBER CRIMINALIUM del Comune di Lugnano in Teverina degli anni 1572-1573.

NICO OTTAVIANI MARIA GRAZIA - Statuto di Deruta in volgare dell'anno 1465 - La Nuova Italia Editrice - Firenze - 1982

NICO OTTAVIANI MARIA GRAZIA - Piediluco, i Trinci e lo statuto del 1417- Tip. Guerra - Perugia - 1988

PIMPOLARI TERZO - Lo statuto cinquecentesco della Terra di Lugnano (1508) - Lugnano in Teverina 1995

PIRRO LIDO - Statuto di Civitella dei Conti del 1529 - Ed. Thyrus - Arrone - 1996

PIRRO LIDO E ROSSI PAOLO - Statutum Interamnae Divo Valentino Urbis Patrono Dicatum -  Ed. Thyrus - Arrone - 1999

PIRRO VINCENZO - La rivolta dei Banderari - Relazione presentata il 31 Marzo 2000 presso il Cenacolo S. Marco, in Terni

SCENTONI GINA - Lo statuto di Marsciano del 1531 - Tip. Artigiana Tuderte - Todi - 1992

SILVESTRI LODOVICO - Antiche Riformanze della Città di Terni - Edizioni Thyrus - Terni - 1977


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